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I fondi Manoscritti

La Libreria Riccardi diventò di pubblica proprietà il 29 aprile del 1813. Con l'accordo stipulato tra il Comune di Firenze e la cordata di librai che si era aggiudicata l'asta del fallimento Riccardi si chiudevano, nella soddisfazione pressoché generale, una difficile vicenda giudiziaria ed una trattati­va durata quasi due anni.

Nel luglio del 1811, ad istanza dei creditori del patrimonio Riccardi, la Libreria fu esposta senza esito al pubblico incanto per due volte a distanza di tre giorni. In previsione dell'asta si era diffuso in Italia e nelle più importanti città d'Europa un indice della collezione, l'Inventario e stima della Li­breria Riccardi (Firenze 1810), aperto da un sentito appello alla liberalità, lungimiranza e ambizione dei potenziali acquirenti: «Uomini di genio; Mecenati dell'Arti, e delle Scienze concorrete all'Ac­quisto, e dimostrate colla reciproca emulazione, che regna tuttora nei vostri Cuori generosi il desi­derio di propagare le discipline cumulandone i mezzi, e fatevi luminosi esemplari di magnificenza, e di virtù, trasmettendo illesi ai Posteri quei luminosi tesori, che guidano l'uomo allo sviluppo dei talenti, all'indagine del vero, all'imitazione dei grandiosi modelli, e lo colpiscono in modo, che rac­cogliendo in se i raggi della luce, che da quelli traspira, sfolgoreggia poscia qual astro luminoso a vantaggio del Mondo ammiratore». Appello che rimase inascoltato. Il 15 luglio l'usciere del Tribu­nale di Prima Istanza fu costretto a rifiutare la cifra offerta dal libraio Tondini, pari ai due terzi della stima operata da Francesco Del Furia, dall'abate Giovan Battista Zannoni e dal libraio e stampatore Giovan Battista Paperini, per non avere «la facoltà di procedere al rilascio, neppure per meno un centesimo della stima». Il 18 luglio l'asta andò deserta. Il 7 gennaio del 1812, per soddisfare i cre­ditori ed allettare i compratori, il Tribunale deliberò una nuova stima, inferiore alla precedente, «previa quanto alla Libreria la divisione in classi per vendersi staccatamente». Ma nemmeno la ri­mozione di quello che era forse il maggiore ostacolo alla vendita, cioè l'offerta in blocco della Libre­ria, riuscì ad attirare compratori. Solo sei mesi più tardi arrivò ai procuratori del patrimonio Riccar­di un'offerta di 97.000 franchi pari ai tre quarti della nuova stima. A questo punto, però, le cose cominciarono a muoversi. C'era infatti il sospetto che dietro la «Ragione mercantile di Firenze Bal­di, Orsi, Fensi e Compagno» si nascondesse un compratore straniero, tale Adolfo Cesare mercante veneziano. Fu la paura che la collezione lasciasse Firenze e si disperdesse che spinse l'abate Francesco Fontani, bibliotecario dei Riccardi, a rivolgere un appello al maire di Firenze Emilio Pucci perché proponesse alle autorità francesi l'acquisto della Libreria «per il comun bene della Patria». Gli stessi timori furono espressi dagli Accademici della Crusca nel corso dell'adunanza del 16 giugno 1812. L'avvocato Collini, a nome dell'Accademia, scrisse poi al Pucci, al Ministro dell'Interno conte Mon­talivet, al Prefetto del Dipartimento dell'Arno barone Fauchet perché si adoprassero per l'acquisto della Libreria nel pubblico interesse. I ripetuti interventi del Collini e le autorevoli pressioni della Crusca (che non faceva mistero di aspirare alla «custodia» della collezione Riccardi) furono determi­nanti. Il Consiglio Municipale decise di far opposizione alla vendita della Libreria. In tribunale l'udienza del 30 luglio fu tempestosa: una parte dei creditori dei Riccardi mirava a chiudere la fac­cenda il prima possibile anche ad una cifra più bassa della stima; i creditori più lontani in graduato­ria, per poter sperare di recuperare qualcosa, avevano interesse a realizzare la cifra più alta possibile; i librai Baldi, Orsi, Fensi e Compagno vedevano nell'intervento pubblico un pericolosa concorrenza; la Municipalità di Firenze era consapevole della debolezza della propria posizione, non potendo of­frire che un pagamento dilazionato e per giunta subordinato all'approvazione dell'Imperial Governo. In soccorso degli interessi pubblici si fece avanti una nuova cordata di librai disposti ad acquistare la Libreria allo stesso prezzo offerto dalla Municipalità (98.000 franchi) nel caso l'approvazione gover­nativa non giungesge entro sei mesi o entro un termine più breve deciso dal Tribunale. Il Tribunale di Prima Istanza decise di accettare «come collegate ed alternative le offerte del Signor Maire di Fi­renze e quella dei signori Piatti, Pagani, Todini e Casini» in quanto «le offerte non si valutano sola­mente dal prezzo ma anche dalle condizioni da cui si trovano accompagnate». Il 27 febbraio del 1813, non essendo ancora giunta l'approvazione imperiale, la Biblioteca Riccardi fu aggiudicata al gruppo Piatti, Pagani, Todini e Casini (cui si erano aggiunti anche i librai Molini e Landi). I nuovi proprietari, considerando la propria esposizione e la possibilità di realizzare un buon margine a bre­ve, offrirono la Libreria alla municipalità per 130.000 franchi. Che i librai trattassero da una posi­zione di forza lo si capisce dal tono ultimativo col quale dettavano condizioni e imponevano scaden­ze. Le trattative divennero frenetiche perché a quel punto il pericolo della dispersione era davvero concreto ed imminente. Con la mediazione del Collini, alla fine, si trovò un accordo sulla cifra di 111.000 franchi da pagarsi in tre anni. Il 19 aprile arrivò la notizia che il ministro dell'Interno au­torizzava la spesa; il 29 aprile il Consiglio Municipale fu in grado di deliberare l'acquisto.

La città aveva concluso un buon affare: ad un prezzo largamente inferiore alla stima iniziale, si era assicurata una raccolta di 3.590 manoscritti, 617 incunaboli e rari, 18.257 edizioni e l'opera dei due bibliotecari di casa Riccardi, Francesco Fontani e Luigi Rigoli ai quali la Libreria fu affidata in cu­stodia provvisoria. Che la decisione fosse dettata da ragioni di economia (i due bibliotecari avrebbero prestato servizio gratuito, «contenti e soddisfatti dell'annua pensione vitalizia, che nella loro antica qualità di Bibliotecario, ed aiuto fu ad essi lasciata dal fu Signor Canonico Suddecano Riccardi») e di praticità (si sarebbe immediatamente aperta al pubblico la Libreria nei locali ad essa destinati nel palazzo Medici-Riccardi) non bastava a rendere meno amara la delusione della Crusca che tanto si era battuta per l'acquisizione. Più volte si tornò ad insistere, a sottolineare i meriti dell'Accademia nell'aver salvato una raccolta «sul punto di essere dismembrata fra le mani di esteri mercatanti», ma non ci fu nulla da fare. Quando il 18 settembre del 1814 il granduca Ferdinando III tornò a Firenze la destinazione della Libreria Riccardi era ancora «provvisoria». Tornati in vigore i Regolamenti del periodo pre-napoleonico, nel timore di dover iscrivere nel proprio bilancio le spese relative alla ge­stione della Biblioteca, la Comunità Civica fiorentina, il 14 agosto del 1815, rinunziò ai suoi diritti in favore dello Stato.

La raccolta che era passata in mano pubblica aveva alle spalle poco più di un secolo di storia. Una storia che si era svolta entro le mura del solo palazzo, tra i tanti e splendidi posseduti dai Riccardi in Firenze e nel contado, cui sia rimasto legato il nome della famiglia. Il palazzo Medici in via Larga era stato acquistato nel marzo del 1659 da Gabriello di Francesco Riccardi (1606-1675) per la som­ma di 40.000 scudi, un terzo dei quali provenienti dal patrimonio del nipote Francesco di Cosimo (1648-1719), erede del titolo di marchese di Chianni e Rivalto. Succedere alla famiglia del Gran­duca nel possesso di un luogo così carico di memorie, fu per i Riccardi una specie di consacrazione che attenuava l'ombra di una nobiltà recente e di origini molto modeste. Ma l'acquisto di palazzo Medici si accompagnò ad un radicale cambiamento nello stile di vita della famiglia e, alla fine, si rivelò causa non secondaria del dissesto finanziario che in tre generazioni doveva travolgere un pa­trimonio che, alla metà del Seicento, era inferiore soltanto a quello della famiglia granducale.

Tra i lavori di ammodernamento, decorazione ed ampliamento della fabbrica che, tra l'aprile del 1659 e il 1691, inghiottirono l'astronomica cifra di 115.000 scudi? ci furono anche quelli relativi alla Libreria. Fu il marchese Francesco che decise di riadattare alcuni locali sul retro del palazzo per creare un museo domestico nel quale sistemare le collezioni di medaglie, bronzi, gemme, cammei, lavori in oro e avorio, la biblioteca del prozio Riccardo (1558-1612) e quella che il suocero Vincen­zio Capponi (1605-1688) aveva destinato alla figlia Cassandra come rata dotale. Giovan Battista Foggini progettò la decorazione degli ambienti e Luca Giordano eseguì gli affreschi delle due sale secondo il programma del senatore Alessandro Segni che era stato precettore di Francesco Riccardi e suo accompagnatore nel grand tour compiuto fra il 1665 e il 1669. Il trasferimento delle collezioni ebbe luogo.fra il 1688 ed il 1689.

Se la raccolta di Riccardo e quella del Capponi furono i due nuclei intorno ai quali si organizzò e crebbe, secondo un disegno razionale e consapevole, la Libreria come oggi la conosciamo, è certo però che Riccardo non fu il primo in famiglia ad avere una biblioteca. Già Iacopo di Anichino, l'artefice delle straordinarie fortune dei Riccardi, possedeva alla sua morte (1426) una quindicina di libri, per lo più volgarizzamenti di classici. Della libreria al tempo di Riccardo invece conosciamo pochissimo: l'inventario redatto alla sua morte ci informa solo della disposizione dei libri nella casa di Gualfonda. Né è possibile ridisegnare il profilo della sua collezione sulla base di troppo rare note di proprietà. Lo stato della biblioteca di Gualfonda alla morte di Riccardo non doveva comun­que essere molto diverso da quello descritto in un inventario del 1632 nel quale è annotato, senza alcuna distinzione tra manoscritti e stampati, il contenuto di venti scaffali per un totale di circa 500 pezzi. Ben diversa la consistenza della raccolta che fece il suo ingresso in casa Riccardi alla morte di Vincenzio Capponi: l'inventario compilato al momento della stima dei libri registra più di 5.000 opere a stampa, alcune delle quali in più volumi, e 249 manoscritti 15. Dopo il trasferimento delle collezioni a palazzo Medici, Francesco aggiunse di suo molti libri comprati all'epoca del grand tour e durante il soggiorno a Roma fra il 1699 e il 1705 e spediti con altre «robe» in centinaia di casse «da non aprirsi se non all'arrivo del Signor Marchese». Tornato da Roma e definitivamente insediato nel palazzo di via Larga, Francesco Riccardi fece preparare gli inventari del suo museo. A quello dei libri si dedicò, nel 1706, il primo bibliotecario di,casa Riccardi, il sacerdote Filippo Modesto Lan­di (t 1756) che compilò anche un «Indice dei manoscritti legati» finora irreperibile. La Libreria però, a dispetto degli sforzi del Landi, sfuggiva ad ogni serio tentativo di disciplinarne la vita e or­ganizzarne la materia. Non c'era solo da star dietro ai continui acquisti, ai troppo frequenti sposta­menti interni, ai prestiti, alle vendite di doppioni, ma anche ai riti mondani della famiglia Riccardi. La Libreria ed il Museo erano visitati da ospiti di riguardo ai quali venivano mostrati, tra musiche e rinfreschi, i tesori più preziosi; i due saloni, illuminati a giorno perché se ne ammirassero gli affre­schi, rimanevano aperti in occasione di feste e banchetti.

Della Libreria e del Museo sotto Cosimo di Francesco (1671-1751) non si sa molto: solo che le collezioni, per alcuni anni, rimasero affidate al Landi e che dal 1733 l'incarico passò a Giovanni Lami (1697-1770), il quale pubblicò a dispense, tra il 1744 e il 1756, il primo catalogo alfabetico dei manoscritti. Furono i quattro figli di Cosimo ad ereditare la passione del nonno per i libri. Francesco(1697-1758), che aveva rinunciato alla primogenitura e abbracciato la carriera ecclesiastica, possedeva a Roma una biblioteca teologica di tutto rispetto. Il marchese Vincenzio (1704-1752) già nel 1741 aveva depositato nella «libreria della Casa» 33 manoscritti di sua proprietà; altri libri furono trovati alla sua morte nelle stanze del suo appartamento privato 23. Bernardino (1708-1777) aveva biblioteche un po' in tutte le sue case: nella villa della Cava a Treggiaia (Pisa), nel casino di Empoli, nella villa di Terrafino, vicino ad Empoli e nell'appartamento ai mezzanini di palazzo Medici-Riccardi. Ma dei quattro fu soprattutto il canonico e suddecano Gabriello (1706-1798) a contribuire in misura straordinaria all'accrescimento (ed alla salvaguardia) della Libreria. Aveva cominciato a raccogliere libri molto giovane, quando frequentava lo Studio pisano e nel periodo in cui abitò col fratello Fran­cesco a Roma di dove tornò «ricco per l'acquisto d'assai vari manoscritti, di pregiate edizioni del secolo XV, e di antiche stampe de' primi e più pregiati maestri». Nel 1731 ottenne (come già Bernardino) una speciale dispensa per «leggere e ritenere i libri proibiti, anche per arricchire la sua Libreria, e per poter fare qualche discorso nell'Accademie». Presi i voti continuò ad abitare nel palazzo di via Larga, in un appartamento ai mezzanini donatogli dal padre. Nonostante la crisi finanziaria della famiglia (già tanto pesante da richiedere, nel 1738, una vera e propria riforma domestica), gli acquisti di libri continuarono ad un ritmo impressionante. Negli anni l'ingombro degli scaffali, delle casse, dei pacchi divenne tale da rendere necessario, nel 1782, l'acquisto di una casa confinante col palazzo, verso via Ginori, nella quale furono allestite due grandi stanze collegate, attraverso un andito, alla sala che un secolo prima Francesco di Cosimo aveva destinato a Libreria. Le due raccolte, «quella pubblica della Famiglia» e quella privata di Gabriello, rimasero distinte almeno fino al 1794, anno in cui Gabriello comprò dal nipote Giuseppe di Vincenzio (1744-1798), ormai sull'orlo della bancarotta, la Libreria ed il Museo. Il vecchio suddecano, che in gioventù aveva dato il proprio generoso contributo alla dissoluzione di un patrimonio familiare che pareva senza fondo, spese l'ultima parte della sua vita e dei suoi soldi cercando di salvaguardare l'integrità delle collezioni storiche dei Riccardi. Forse morì credendo di esserci riuscito, avendo ottenuto dal Granduca, nel 1794, che fossero sottoposti a vincolo di primogenitura il Museo, la Libreria e le rendite destinate al pagamento di due bibliotecari (Francesco Fontani e Luigi Rigoli), all'acquisto di nuove opere e al completamento di quelle in serie. Quando iniziarono le procedure di fallimento questo vincolo decadde e, come si è visto, sia la Libreria che il Museo furono messi in vendita. Tuttavia se almeno la Libreria si salvò nel generale naufragio, fu proprio perché nel piano legale e finanziario disegnato da Gabriello (separare il destino delle col­lezioni da quello del resto del patrimonio; assicurarne l'autosufficienza economica; disporre l'apertura al pubblico con un orario regolare) poté leggersi il progetto d'istituzione di una pubblica biblioteca concepita «per l'ornainento della città, e per l'aumento delle scienze».

Gli anni che seguirono la vendita della biblioteca non furono sempre facili. Finché valsero le di­sposizioni testamentarie di Gabriello a favore dei suoi due bibliotecari non ci furono problemi; ma già nel 1819, dopo la morte del Fontani, il superstite Rigoli si trovò a combattere contro un proget­to di unione della Riccardiana alla Marucelliana che prendeva spunto dalla possibilità di risparmiare uno stipendio di sottobibliotecario. Da allora, e fino al 1942, la vita della Riccardiana si accompa­gnò alla costante minaccia di un trasloco con conseguente travaso delle sue collezioni in altro conte­nitore maggiore. Si invocavano quasi sempre ragioni d'ordine economico e pratico, ma in realtà il pericolo per l'autonomia della biblioteca veniva dalla sua sede. La presenza della biblioteca entro il perimetro del palazzo Medici-Riccardi, in stanze che agli altri coinquilini (la Provincia, la Prefettura e, per un certo tempo, il Provveditorato agli Studi) dovevano sembrare inutilmente grandi e sfaccia­tamente sontuose, era vissuta come un'intollerabile servitù di cui ci si doveva in ogni modo liberare. In previsione di questo trasloco mai realizzato, la Riccardiana perse nel 1865 il suo vestibolo, ossia la galleria di Luca Giordano, che passò alla Prefettura; inoltre dal 1876 i compiti direttivi e ammi­nistrativi passarono alla Nazionale e dal 1898 alla Laurenziana. Dopo la prima guerra mondiale la biblioteca venne chiusa al pubblico per riaprire definitivamente nel giugno del 1942.

L'ordinamento attuale della collezione dei manoscritti corrisponde nelle linee fondamentali a quello disposto da Del Furia, Zannoni e Paperini in previsione dell'asta del 1811 e codificato nell'In­ventario e stima del 1810. Fu in quella occasione che le due raccolte di casa Riccardi - quélla iniziata da Francesco (che include le collezioni di Riccardo Riccardi, Vincenzio Capponi e Vincenzio Riccar­di) e quella di Gabriello (che ingloba quelle di Anton Maria Salvini, di Giovanni Lami, di Giuseppe e Benedetto Averani) - furono fuse, senza riguardo per le provenienze, in un'unica serie numerica seguendo un criterio per materie (1-98 «Manuscripta Graeca, et Hebraica quaedam», 99-166 «Gra­ecorum auctorum Latinae versiones», 167-220 «Codices Arabici», 221-1001 «Codices Latini», dal 1002 «Codici d'Autori Classici Italiani ecc.») e cercando di riunire le opere di un medesimo autore. Il solo modo per distinguere i codici provenienti dalla «Libreria pubblica della famiglia», un tempo separata anche topograficamente da quella di Gabriello, è dato da una segnatura alfanumerica (che è annotata sul codice o si ricava da un'apposita tavola di concordanza disponibile presso la sala di con­sultazione) corrispondente alla collocazione dei manoscritti all'epoca in cui Giovanni Lami pubblicò il suo Catalogus. La vecchia segnatura Lami indica genericamente che il manoscritto non proviene dalla raccolta di Gabriello ed era già in biblioteca anteriormente al 1744-1756.

La serie dei manoscritti arriva attualmente alla segnatura 4166, anche se il numero effettivo dei pezzi è maggiore, visto che non poche segnature comprendono più volumi, ciascuno individuato da un esponente. Dopo il 1810 la collezione si arricchita tramite acquisti e donazioni, attraverso un'opera di riordinamento di alcuni settori della collezione stessa e dell'archivio della biblioteca. I manoscritti dopo la segnatura 2992 sono stati, in varie riprese, diversamente collocati e i cambi in­dicati a mano sull'esemplare riccardiano dell'Inventario e stima insieme alle acquisizioni successive al 1810 (mentre per quelle dal 1950 è in uso un catalogo a schede). Pertanto oggi non sono più va­lide né le segnature Lami né quelle dell'Inventario e stima successive al numero 2991. 

Il Catalogus del panni e l'Inventario e stima rimangono gli strumenti primari di accesso alla colle­zione di manoscritti della Riccardiana, da integrare per le segnature 1002-1700 (ossia il settore nel quale furono ordinati i testi in volgare) con il più importante catalogo a stampa di cui la biblioteca disponga, compilato all'inizio del secolo da Salomone Morpurgo,,e per le segnature 3235-3421 col recentissimo lavoro di Maria Falciani Prunai. Per tutto ciò che non è coperto dal Morpurgo, ma soltanto per i testi di interesse umanistico, vale naturalmente l'Iter Italicum del Kristeller. Per codici greci bisogna riferirsi all'Indice compilato nel 1894 da Girolamo Vitelli, per i codici miniati al cata­logo pubblicato nel 1958 per cura di Maria Luisa Scuricini Greco (da usare con ogni cautela) e per quelli di interesse medico e alchemico all'inventario compilato nel 1990 da Mahmoud Salem El­sheikh. Un grande aiuto nell'esplorazione della raccolta riccardiana viene da due strumenti pratica­mente ignoti ai frequentatori della Biblioteca (e che forse, vista la crisi delle imprese di catalogazio­ne, meriterebbero maggior pubblicità), ossia le manoscritte Illustrazioni di vari codici Riccardiani dell'abate Francesco Fontani (Ricc. 3581) e del suo successore Luigi Rigoli (Ricc. 3582), contenenti la dettagliata descrizione del contenuto di un grandissimo numero di codici. 

Solo l'edizione integrale del ricco corpus di inventari riccardiani anteriori al 1810 e della docu­mentazione relativa agli acquisti di manoscritti effettuati prima di quella data permetterà di ridise­gnare perimetro e fisionomia delle raccolte personali di Riccardo, di Francesco, Vincenzio, Bernar­dino e Gabriello Riccardi e di quella di Vincenzio Capponi poi confluite nella grande collezione co­mune. E insieme sarà possibile chiarire quali interessi e curiosità abbiano guidato le scelte di ciascu­no, quali siano stati i loro canali di approvvigionamento. Questa ricostruzione, infatti, non è realiz­zabile a partire dagli oggetti del collezionismo riccardiano, perché solo in casi del tutto eccezionali i manoscritti sono individuati da ex libris o note che ricordino le circostanze dell'acquisizione39 (mentre la generica proprietà Riccardi è attestata da un timbro col motivo araldico della chiave ap­posto di solito sulla prima ed ultima carta scritta del codice). Tuttavia, c'è almeno un carattere della raccolta Riccardi di cui è necessario parlare e che risulta evidente anche da un catalogo parziale com'è questo primo volume di codici datati. Carattere che discende dal meccanismo di costituzione della raccolta, che dipende dai tempi e dai modi nei quali furono effettuati gli acquisti.

Se si affronta la Riccardiana non tanto (o non solo) dalla parte dei testi, ma dal versante della sto­ria del manoscritti (intesa come storia materiale e storia della loro circolazione e conservazione), la biblioteca si svela come lo straordinario collettore di un gran numero di raccolte private fiorentine e toscane quattro e cinquecentesche. Librerie private più o meno grandi che furono lentamente disper­se o messe in vendita in blocchi consistenti un po' perché erano venute meno le ragioni culturali o di prestigio sociale che ne avevano favorito la aggregazione, ma anche perché, in molti casi, si erano dissolti i patrimoni che ne avevano garantito l'esistenza. Le circostanze hanno voluto che questa de­cadenza coincidesse dapprima con l'ascesa delle fortune finanziarie dei Riccardi, poi con le esigenze di un collezionismo quasi ossessivo, insofferente di ogni regola o cautela, deciso ad acquistare in blocco praticamente tutto ciò che si rendeva disponibile. In questo modo in Riccardiana sono appro­date, alla fine di complicati e spesso oscuri passaggi, parti consistenti delle biblioteche di Marsilio Ficino, di Cristoforo Landino, di Poggio Bracciolini, di Pietro Crinito, di Bartolomeo Fonzio, di Ni­codemo e Francesco Tranchedini, di Benedetto Varchi, dei Pandolfini, dei Minerbetti, dei Nesi, de­gli Adimari. E proprio alla dimensione privata di queste più antiche raccolte risale il grande rilievo testuale di tantissimi codici nei quali si conservano stesure autografe, quaderni di lavoro o di studio, brogliacci, lettere. Per non parlare della presenza davvero straordinaria, per varietà di testi e peso statistico, della letteratura volgare. È questa popolazione di manoscritti di fattura anche modesta, cartacei, occasionalmente e sobriamente decorati, copiati senz'altra intenzione che quella di farne strumenti di studio o lettura, spesso legati gli uni agli altri da una scoperta e fitta trama di rimandi, a definire il carattere della raccolta Riccardiana (certo più di quanto non facciano, nella loro preve­dibilità, le pur numerose e selezionatissime raffinatezze da bibliofili).

Questo stato di cose ha condizionato, ma anche giustificato, alcune scelte compiute da Emanuele Casamassima nel progettare, agli inizi degli anni '70, il censimento dei manoscritti datati della Bi­blioteca Riccardiana. Censimento che era regolato da un protocollo descrittivo estremamente sinte­tico e da criteri generali più ampi e meno selettivi di quelli applicati nella collana dei Manoscritti datati d'Italia: a cominciare dal limite cronologico, individuato nella metà del secolo XV, e poi ac­cogliendo i codici per i quali le coordinate temporali fossero ricostruibili con sufficiente precisione incrociando dati testuali e dati relativi alla storia del manoscritto, e i codici di riconosciuta (ma non esplicitamente dichiarata) autografia o nei quali questa condizione risultasse evidente dallo stato di elaborazione del testo o fosse rivelata da dati di altra natura (stemmi, note di possesso, antiche se­gnature, ecc.); e neppure escludendo, in via di preliminare, i manoscritti a contenuto documentario (libri di conti, statuti, cartulari) purché progettati da subito in forma di libro.

Nel riprendere il materiale di quel primo censimento adattandolo, nella forma e nella sostanza, ai principi della collana dei Manoscritti datati d'Italia", si è deciso di non spezzare del tutto il lega­me col progetto originale allestendo un'Appendice nella quale trovano posto, in due serie distinte, i non molti codici della prima metà del secolo XVI datati o sottoscritti e alcuni manoscritti (per lo più di copie di dedica) per i quali la datazione ad annum è certificata non da un'apposita dichiara­zione, ma da altro dato esplicito ed oggettivo. Inoltre, nelle due sezioni 'istituzionali' del catalogo (riservate ai manoscritti datati e a quelli con indicazione di copista), sono inserite alcune schede re­lative a statuti in copia43, a codici nei quali il nome del copista sia dichiarato in formule e in luoghi non canonici, ad esempio in note di proprietà" (verificatane, come per ogni altra dichiarazione, l'au­tografia), e a codici, di struttura assolutamente unitaria, ma che hanno impegnato i loro copisti ben oltre il limite dell'anno.

 

L' Associazione ha la finalità di promuovere lo studio dei manoscritti medievali conservati in Italia, con particolare riferimento ai manoscritti datati, allo scopo di realizzarne il censimento, la catalogazione e la divulgazione a stampa e in rete.

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